Rinizia l’epoca delle riunioni. Rinizia la programmazione e il dentro al posto del fuori. Niente birretta sulle panche sotto le stelle dopo l’incontro, piuttosto una bella tisana calda o, per i più fortunati che conoscono Lorenzo Iori, un buon bicchiere di vino – a lui piacciono i siciliani e i toscani – e come dargli torto. Ritorniamo alla didascalica, al cesello e alle spartizioni di doveri. Che in politica vengono coordinati da chi non ne ha: è questo che mi ha sempre inquietato dei professori, ad esempio, il fatto che ci insegnassero le cose e vivessero una vita tutto sommato mediocre – infelice, dimessa. Non tutti, certo; qualcuno era un campione, un illuminato, si capiva che era felice. Ma la maggior parte si vedeva che ci insegnava perchè gli adulti non gli davano retta.
E la cosa ganza è che mentre ti metti di impegno ad insegnare qualcosa a qualcuno, piano pianino la capisci anche te. Credo che risieda in questo la più grande attrattiva, o vocazione, dell’insegnamento: capire. Non il salire in cattedra, non del tutto almeno, ma la possibilità di ripetere le cose finchè diventano chiare come l’acqua, solide come la pietra. Non tutti hanno questo privilegio, anzi, noialtri ci ritroviamo in flussi di informazioni che se tutto va bene ci passano accanto senza danno, altre volte ci straziano le intenzioni e non ci possiamo fare nulla perchè non abbiamo visto la valanga che arrivava. Allora ce le ripetiamo nei sogni, oppure andiamo in vacanza, per recuperare quel senso di stordimento – che basterebbe comunicarlo per capire che colpisce tutti, ma proprio tutti, quelli che conosciamo.
Un’altra grande qualità dell’insegnamento è quello di vedere i bambini crescere e poi infilare il loro sentiero. Non ci vuole un genitore, per capire l’importanza di questo iter, ma mettiamola così: una volta fatto un figliolo si capisce quanto si può amare profondamente, con dolore e affetto che crescono assieme man mano che si avverte il distacco. Basta anche solo una persona sensibile per comprendere appieno la potenza distruttiva dell’amore: non si torna indietro, quando si vuole bene. Quando si ama. Quell’amore si impianta dentro di noi finchè non c’è uno spazio favorevole per le radici, e se disgraziatamente le persone che c’hanno buttato quel seme vanno via, troppo a lungo o addrittura per sempre, quelle radici fanno frutti ogni giorno che ci fanno venire la nausea. Fiori che ci graffiano le pareti. E’ così: noi non comandiamo l’amore, o il tempo. Ma possiamo usare questi due e mescolarli, per provare sollievo. Felicità, qualche volta.
Qui stiamo, senza garanzie. E ce la mettiamo tutta. Ora, quando penso a Giulia – voi magari non l’avete conosciuta, e certe volte penso che siate fortunati perchè non sapete cosa vi siete persi – penso ad un’insegnante come Robin Williams nell’attimo fuggente, il film che ci ha fatto riscoprire la poesia dopo che i nostri insegnanti ce l’avevano rubata coi loro libri di testo e facce da morto. Lei mi ha insegnato a usare il pollice come se suonassi il basso. Non mi ha sgridato perchè non so tenere la chitarra su o perchè se mi dici mi bemolle io non c’è verso che riesca a suonarlo – e ci sono un sacco di canzoni ganze in mi bemolle. No. Mi ha guardato, come faceva lei, e mi ha dato la soluzione più veloce, più efficace e, rullo di tamburo: più divertente.
Perchè io, in una vita di mortificazioni e leggi bizantine, non ci so stare. E lei, senza fare domande particolari, l’aveva intuito. Non voglio spingermi a dire che l’aveva capito, ma giuro che mi aveva fra le sue mani dopo due minuti che ci eravamo incontrate. Usciva dalla porta della mansarda e diventava una nuova Giulia: andava in Chiesa. Ci andavo anche io, ma non per davvero. Allora imbracciava il rosario e si metteva giù a capochino. Cioè, sto cercando di dire, che Giulia suonava sì quattro strumenti, ma parlava trenta lingue. Forse trecento. Ne parlava una per ogni persona che si trovava davanti, quando noi imparavamo le nozioni di inglese.
Questo, io vorrei. Un’associazione che mentre ci fa dare un servizio ci fa imparare nuovi linguaggi. Che ci sc(r)osta da noi stessi. Che va bene così come viene, purchè si faccia qualcosa – e poi piano piano la si faccia sempre meglio, perchè non c’è nulla di più triste che nascondertsi dietro la morte di qualcuno per suonare male, cantare così così, parlare a monosillabi. Qui, ci vuole la benza. Il gas. Ci vuole il bastone e lo zainetto con il pane secco da mangiare in cammino. Bisogna che quando manca uno straccio, non si scriva sulla lavagna “comprare cencio” – no, bisogna proprio andarlo a prendere, così la prossima volta anche i bambini lo sanno riportare. Bisogna imparare. Bisogna insegnare, se no non impareremo. E’ finito il tempo del cesello, nel mio cuore. Daltronde, scusate, non ho molto tempo e devo imparare sessanta lingue almeno.
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