Finalmente una sveglia con cerchio alla testa, occhi gonfi e capelli come si conviene ai fiocchi di cotone appena pelati dalla scatola di plastica: dopo due mesi di santità alimentare – e il vino no, e la pasta no, e i bomboloni no, e sigarette no – ieri sera mi sono riappacificata con il lato spetta ora torno a Woodstock, e ho suonato fino all’una del mattino presso il circolo arci del Bottegone. Stamani, infatti, non accuso dolori al collo nè pesantezza alla spina dorsale, miei migliori amici da quando vado a letto la sera alle dieci e mi alzo alle sette.
Una stanza pitturata di celeste, palco coperto di velluto e un ragazzo al mixer. Sotto centomila vecchi a giocare a carte e bere ponci. Mi dice il bimbo che infila i cavi nei posti sbagliati – è il suo compito, avrà sì e no sedici anni – che ci hanno passato l’estate a rimettere a posto il tutto, che prima c’erano le file di seggiole invece ora ci sono i tavolini. C’è un divanetto da pomicio in fondo, spero sia utilizzato per giusti scopi. Questo posto, lontano miglia dalla discoteca, è dove mi sento a casa: la gente qui viene a suonare ed ascoltare, partecipare, cantare. Questo faccio con Giulia, andiamo nei posti dove si può suonare senza troppe sovrastrutture, dotati solo di entusiasmo e, forse, un pezzettino di talento.
Sergio Montaleni, Lorenzo Del Pero, Silvia Nerozzi, Galligani e chissà i nomi di quegli altri. Una ragazzina che assomiglia molto ad una modella londinese mi serve la sangria e la pizza, altre due ragazze hanno il rossetto rosso e il basco, con questa pelle chiara: applaudono per gentilezza, forse, ma guardo quelle due facce tutta la sera per trovare conforto. E’ importante, quando fai una canzone, sapere che c’è qualcuno a cui piace a parte te stesso. Questo, anche, Giulia fa benissimo: si sintonizza con le persone in sala e modula il repertorio come se le conoscesse tutte, ma una ad una.
Montaleni ha perso la voce, ed è un peccato perchè lui fa Black Bird dei Beatles che sembra l’abbia scritta. Lorenzo mi piglia la chitarra per suonare Jimie Hendrix – e lo strumento è finalmente felice in mani veloci, esperte. Io canticchio, ma non molto – i cantanti e i pianisti si somigliano molto, non riescono mai a stare zitti. Silvia Nerozzi, che sembra una bimba cresciuta di quelle dei libri Fabbri, modula voce con il labbro che trema. Non c’entriamo nulla l’uno con l’altro, va bene così, suoniamo bene stasera accidenti.
Quel fuoco, l’unico per il quale posso spendere tutte le parole di troppo, io ce l’ho dentro da quando siamo piccole – io, Giulia ed Eva, ma anche Angela, registriamo le canzoni con lo stereo quello delle cassette, che oggi mi sa che non esiste nemmeno più. Ma tanto c’è Garage Band. Quella fiamma mi ha sostenuto quando hanno cominciato a cambiare le cose, quando lo sguardo è diventato meno stupito e più tradito, ma soprattutto quando ho dovuto cominciare a fare i conti con quello che dicevo, per vedere che fosse consistente con quello che facevo. Quella piccola pira mi piace condividerla, su un palco, con quelli che ce l’hanno spenta o nascosta, per suonare: musica come trigger, come inno alla gioia, come dio motore immobile nella vita che cambia.
E’ per questo che sono in questa associazione libera di persone di In The Name of Love: perchè quella faccia, la prima volta che ti danno un palco su cui suonare, la very first time che ti viene bene una canzone che a casa esce sempre uno stragio, che la gente ti applaude perchè ti vede aldilà della chitarra o della tastiera, ecco quella faccia vale una vita assieme. Se quella è la faccia che aspetti di fare vedere, se c’è anche solo una canzone che vuoi cantare, suonare, arrangiare, diccelo.
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